Speciale Corea del SudSpettacolo

Squid Game 3, ultimo atto: le patate bollite e il mistero della natura umana 

Squid Game 3, approdato su Netflix il 27 giugno 2025, chiude un ciclo narrativo diventato ormai mitologia contemporanea. Ma più che una fine, è una messa in scena della domanda definitiva: chi siamo davvero, quando nessuno ci guarda?

http://voceliberaweb.it

Dopo due stagioni che hanno scavato nella disillusione sociale e nell’abisso personale, Squid Game 3 cambia passo. Rinuncia alla violenza spettacolare a favore di una crudezza silenziosa, quasi ascetica. I giochi si trasformano in prove morali, i meccanismi scenici diventano allegorie. E il sangue non lo spargono più le guardie, ma i giocatori stessi. 

Un’arena senza carnefici: la legge del branco 

Fin dalla prima prova, la serie mette in chiaro il nuovo paradigma. Le guardie, finora strumenti ciechi del potere, non uccidono più. Sono presenti, armate, ma inerti. Lo spettatore si accorge presto che il vero pericolo, ora, viene dai compagni

Il cosiddetto “nascondino letale” è tutto fuorché un gioco infantile. Non ci si nasconde, si caccia. Un tempo prestabilito, spazi ridotti e una regola implicita: chi non elimina qualcun altro, rischia l’eliminazione. La dinamica si fa tribale. Ma più che la violenza, colpisce la fame. Ai partecipanti, infatti, non viene servito altro che patate bollite, crude a volte, senza sale, senza piatti. 

Una scelta che sembra voler riprodurre un’ambientazione carceraria, o forse animale. Una privazione simbolica? Forse. Ma qualcosa non torna: i concorrenti non sembrano debilitati, non appaiono affamati. Mangiano poco, ma agiscono con lucidità. Come se la fame fosse uno strumento di pressione più teatrale che fisiologico. Un’illusione di privazione, creata per spingere i partecipanti a sentirsi più soli, più braccati, più primitivi.

Il secondo gioco: Young-hee non è più sola 

La seconda prova è un capolavoro di tensione e sadismo coreografato. Ritorna l’iconica bambola Young-hee, ora affiancata da Cheol-su, il suo gemello maschile. I due ruotano insieme una gigantesca corda meccanica, che taglia l’aria come una lama invisibile. I partecipanti devono saltarla, una variante infernale del gioco della corda, ma l’intensità, la velocità e i ritmi imprevedibili della macchina li trascinano al limite. 

L’elemento interessante non è tanto la morte che incombe, ma l’estetica dell’atto: la danza forzata dei corpi, il rumore metallico della fune, l’occhio vuoto delle bambole. È un gioco che ricorda i cicli ripetitivi della produttività moderna: stessi movimenti, stessi orari, stessi rischi. Un incubo industriale travestito da giocattolo.

Il terzo gioco: scegliere chi deve morire 

Se la seconda prova è fisica, la terza è interamente psicologica. Non c’è un percorso, l’obiettivo è solo puntarsi il dito contro gli uni con gli altri. Le istruzioni fornite dalla voce metallica dall’alto sono chiare: decidere cosa fare, chi scegliere, cosa premere. In breve, si scopre che ogni scelta provoca un’eliminazione — ma non per caso. Sono i giocatori stessi a decidere chi vive e chi muore. 

Il Front Man, ormai figura semi-teologica più che dittatoriale, osserva. Il suo credo è chiaro: l’essere umano è intrinsecamente spietato, avido, mosso solo da un interesse economico in questo caso. Un’espressione che rovescia il senso classico del cinismo: non più solo desiderosi di denaro, ma anche e soprattutto vuoti, privi di empatia, semplicemente funzionali alla sopravvivenza. 

Ma questa visione si incrina. Gi-hun, l’antieroe per eccellenza, risponde in un dialogo che resterà inciso nella memoria della serie: “Non siamo cavalli. Siamo umani.” Quella frase in sospeso risuona come una dichiarazione morale, seguita poi da un silenzio che fa troppo rumore. Che esseri umani siamo? Decidiamolo noi.  

È una presa di posizione contro l’ideologia che ha dominato tutto il gioco fin dall’inizio: quella secondo cui l’unico valore è la resistenza, la forza, la sopravvivenza del più forte. 

Il significato dei giochi: siamo noi a doverlo costruire 

In questa stagione, il significato dei giochi non è più imposto. Non c’è una morale univoca. Non c’è neppure una punizione chiara. La violenza è spostata sul piano simbolico. E il significato, per la prima volta, viene messo interamente nelle mani dei partecipanti e dello spettatore

È il più grande rischio narrativo di Squid Game 3: smettere di offrire risposte e trasformarsi in specchio. Lo spettatore è obbligato a chiedersi: se fossi lì, cosa farei? E se l’unico modo per vincere fosse non giocare più? 

Un finale che sposta il conflitto fuori dal gioco 

Senza rivelare nulla, basta dire che il gioco, in un modo o nell’altro, finisce. Ma ciò che conta è ciò che viene dopo. L’ultima inquadratura non è una vittoria, né una sconfitta. È una sospensione. Il messaggio, implicito ma radicale, è che non possiamo aspettarci che un sistema malato si autodistrugga. Possiamo solo decidere come vivere al suo interno. 

Il vero centro di questa stagione non è più il denaro, né la morte, ma la scelta. Scegliere come agire, scegliere chi essere, scegliere se credere ancora in qualcosa, in qualcuno, o cedere all’indifferenza

Conclusione: L’umanità è una scelta, non una condizione 

Squid Game 3 non ha bisogno di spiegazioni. È una stagione che va letta, metabolizzata, forse rifiutata. Ma non ignorata. Hwang Dong-hyuk mette in scena un’umanità alla deriva, ma non ancora perduta. Il gioco finisce, sì. Ma il vero enigma comincia solo quando non ci sono più regole. 

L’essere umano è davvero “senza sangue”? O è proprio nel sangue che versa, non per odio, ma per scelta, che può ritrovare una parvenza di anima? 

Il bambino che nasce, la fame che non uccide, il sacrificio che non salva, tutto concorre a una sola verità: non sono i giochi a definire l’uomo. È l’uomo che dà un senso ai giochi. 

E forse, in quell’ultimo sguardo, Squid Game 3 ci ha finalmente detto chi siamo. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *