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Placido Rizzotto, il sindacalista che sfidò la mafia

Pippo Fava lo definì “un uomo che gettava il seme della rivolta in un luogo, in una terra, in un territorio dell’isola che era stato sempre tradizionalmente dominato dalla mafia”, il suo nome era Placido Rizzotto, la sua storia una testimonianza di coraggio.

Per le stesse vie di Corleone, quel paesino arroccato tra le montagne che ha visto nascere tante dalle mani che hanno strangolato i principi, i valori e il futuro di una terra, ci sono stati uomini che hanno lottato affinché ciò non avvenisse, coscienze inquiete -per citare Don Ciotti- che hanno gridato “basta!”. Placido Rizzotto era una di queste. Attraverso il suo ruolo di sindacalista si schierava dalla parte degli ultimi, contro coloro che invece conducevano e proteggevano una logica per la quale molti contadini non potevano far altro che sottostare a regole e ad ordini che li privavano della loro stessa libertà. Placido aveva deciso di sfidare l’ingiustizia, la stessa che riconosceva negli occhi e nella voce di coloro che un tempo, quand’era ancora bambino, aveva conosciuto come compagni di scuola o semplici ragazzi che popolavano il suo stesso paese.

Placido Rizzotto

L’assassinio

Michele Navarra era il capomafia di zona, un medico il cui prestigio della professione era secondario soltanto a quello di “uomo d’onore”, la figura sotto la quale “crescerà” Luciano Leggio, il capo di quella che sarà “La Primula Rossa”. Proprio quest’ultimo, il cui nome nel verbale del primo arresto verrà storpiato di una vocale diventando celebre come “Luciano Liggio”, sarà individuato come esecutore materiale, insieme a due altri complici, dell’omicidio del sindacalista siciliano.

L’assassinio di Placido Rizzotto avvenne esattamente 76 anni fa, il 10 marzo del 1948. Aggredito e malmenato per le strade di Corleone, Placido fu stordito e caricato su un auto che lo portò nelle campagne circostanti, le stesse che quotidianamente cercava di liberare dal controllo malavitoso. Nel buio della notte fu fatto scendere dalla vettura mentre i suoi carnefici ne stavano per decretare la morte. Già in condizioni assai precarie, gli vennero esplosi contro tre colpi d’arma da fuoco e subito dopo, probabilmente ancora in vita, fu gettato giù in una foiba profonda centinai di metri.

In quelle stesse fessure in cui gli agricoltori vi scaraventavano pietre e rifiuti di ogni genere, la mafia vi gettava chi aveva osato sfidarla, chi non si era piegato a quella logica criminale e anzi spendeva le sue energie per scuotere la coscienza del popolo siciliano. Davanti alle minacce Placido non aveva mai piegato la testa, con coraggio aveva portato avanti la sua lotta fino a quando non furono gli altri a sopprimerla.

Il boss mafioso Luciano Liggio

Un solo testimone

Sul Monte di Rocca Busambra, lì dove Liggio e i suoi uomini condussero il sindacalista, era presente in quegli stessi momenti un pastorello, Giuseppe Letizia. La sua attenzione era stata catturata dai fari dell’auto che aveva arrestato la sua corsa pochi centinaia di metri più avanti. Il ragazzino, anche se nel buio della sera, aveva intravisto certamente qualcosa, al punto che ne rimase traumatizzato. L’indomani il padre, preoccupato dallo stato delirante del figlio e dal forte stato febbrile, portò il ragazzo in ospedale. Giuseppe non uscirà più da quella struttura, ucciso da un’iniezione letale che vedrebbe in Michele Navarra l’esecutore.

Le indagini

Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Non avendone più notizie la famiglia di Placido si rivolse quindi all’allora capitano dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, il quale iniziò ad indagare proprio dalla morte del piccolo pastorello. Qualche tempo dopo furono ritrovati i resti del cadavere del sindacalista, irriconoscibile essendo stato perlopiù divorato dagli animali. La sua fidanzata lo identificò fin da subito ma solo nel 2012, grazie ad una strumentazione più avanzata, fu possibile averne la conferma attraverso l’esame del DNA. Dalla Chiesa riuscì a raccogliere diversi indizi capaci di portare all’arresto i complici di Liggio, i quali però, pur ritrattando le loro stesse confessioni durante il processo, vennero poi assolti per insufficienza di prove.

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