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Fast fashion: i fili tossici

Fra consumismo, omologazione e dilemma chimico

In un’economia ormai orientata più all’evocazione dei bisogni che alla loro soddisfazione, l’umanità sembra prigioniera in circoli viziosi e infiniti di desideri sempre più mutevoli. 

Questo incessante bisogno di nuovi prodotti ed esperienze è alimentato da una cultura consumistica, sfrenata e rovinosa, che promuove il materialismo e la ricerca costante della felicità attraverso gli acquisti.

Offrendo design alla moda a prezzi incredibilmente bassi, la fast fashion è riuscita a catturare l’attenzione di tutto il mondo, sinonimo di convenienza ed economicità. 

La fast fashion prospera grazie a cicli di produzione rapidi che consentono ai marchi di abbigliamento di produrre nuove collezioni in tempi ristretti, soddisfando immediatamente le volubili esigenze dei consumatori.

Il timore di rimanere esclusi, se non ci si conforma alle tendenze del momento, è una realtà diffusa e pervasiva, a cui molto deve il successo della fast fashion. Quest’ansia sociale spinge molti individui a cercare freneticamente di adeguarsi agli standard imposti dall’industria della moda, acquistando compulsivamente proprio su piattaforme adibite. Piattaforme che rendono subito disponibili i prodotti desiderati, le cui modiche cifre suscitano l’acquolina. Sembra un affarone. 

Dietro la sua facciata glamour, la fast fashion comporta, però, costi significativi, sia in termini umani che ambientali.

L’incessante ricerca del profitto di molti brand approfitta della manodopera quasi a costo 0 di paesi in via di sviluppo per risparmiare e tagliare i costi di produzione.

La dipendenza dell’industria della fast fashion dal lavoro a basso costo esacerba le ingiustizie sociali e le violazioni dei diritti umani. I lavoratori delle fabbriche spesso subiscono condizioni di lavoro pericolose, lunghi turni e salari miseri. La pressione per rispettare tempi stretti di produzione compromette ulteriormente la loro sicurezza e benessere, portando a casi di sfruttamento e abusi.

Il salario medio degli operai delle industrie tessili in Bangladesh si aggira attorno ai 75$ al mese.

Oltre che una pressoché inesistente responsabilità sociale nei confronti dei suoi dipendenti, la fast fashion commercializza prodotti scadenti, dai materiali tossici.

Dall’analisi di Green Peace su 47 capi d’abbigliamento del noto marchio Shein, 45 contengono almeno una sostanza pericolosa. 7 (circa il 15%) contenevano sostanze chimiche pericolose in concentrazioni superiori ai limiti stabiliti dalle normative comunitarie. In 15 (32% del totale) prodotti le concentrazioni si attestavano a livelli preoccupanti.

Sostanze chimiche per tingere, finire e trattare tessuti, come piombo, mercurio, ftalati e formaldeide. Una minaccia per la salute dei lavoratori, così come per la nostra, in quanto sempre a contatto con la pelle.

La produzione tessile è responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile, con lo scarico tra i 0,2 e 0,5 milioni di tonnellate di microplastiche. È, invece, il 10% l’ammontare delle emissioni globali di carbonio.

La produzione e lo smaltimento delle fibre sintetiche, inoltre, comportano rischi ambientali consistenti.

Discarica rifiuti fast fashion in Ghana

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