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Son Heung-min e l’onore tardivo di un figlio della Corea

Dopo una carriera segnata da sacrifici, gol memorabili e una costanza quasi ascetica, Son Heung-min conquista il suo primo titolo europeo con il Tottenham. Ma questa vittoria non è solo sportiva: è l’epilogo simbolico di un percorso che intreccia dovere filiale, identità culturale e una lotta silenziosa contro il destino. Il figlio della Corea si è sempre negato l’appellativo di leggenda. Ora, finalmente, lo accetta

📷 bbc.com Son Heung-min, attaccante Tottenam Hotspur voceliberaweb.it 📷

Si potrà mai definire “leggenda” chi rifiuta ostinatamente il piedistallo? Forse è proprio questo il punto. Ma una notte di maggio, in uno stadio europeo intriso di gloria, Son Heung-min ha finalmente concesso il permesso: “Sì, dai. Ora potete dire che sono una leggenda.” 

E così, come un eroe omerico che ritorna a casa non per ricevere applausi, ma per riscoprirsi uomo, Son si è liberato del silenzio. Il suo primo titolo in carriera, l’Europa League vinta con il Tottenham dopo dieci anni a camminare insieme, non è solo un trofeo. È una chiusura del cerchio, un suggello. Il momento in cui la costanza si trasforma in consacrazione 

Son Heung-min non è mai stato figlio del caso. La sua storia, che molti conoscono, ma pochi comprendono davvero, sa di antica disciplina e modernissima tenacia. Cresciuto all’ombra della severità paterna, ha respirato fin dall’infanzia un’etica del sacrificio in cui l’eccellenza non è un diritto, ma un debito da saldare giorno dopo giorno. 

In Corea del Sud, il concetto di hyo (효), la pietà filiale, non è solo un valore morale: è un principio fondante, una legge non scritta che regola i rapporti familiari come il vento regola l’onda. E Son Heung-min, più che calciatore, è stato discepolo. Ha sacrificato adolescenza, leggerezza, persino gioia, sull’altare di un sogno non solo suo, ma familiare, nazionale, collettivo. 

Il risultato? Un atleta con i riflessi di un felino e la sobrietà di un monaco zen. Un funambolo sobrio, se mai potesse esistere un ossimoro simile. Le sue giocate non sono fuochi d’artificio: sono haiku in movimento. Essenziali, lucide, taglienti. Eppure, quante volte quella poesia è rimasta senza titolo? Anni di splendore individuale, riconoscimenti come “miglior calciatore asiatico dell’anno“, ma nessun trofeo sollevato, nessun finale in trionfo. Come se la sua parabola fosse destinata a rimanere incompiuta, sospesa tra tragedia e meditazione. 

In Europa, a Son è stato chiesto tutto, tranne che di essere umano. Doveva essere il salvatore del Tottenham, l’ambasciatore d’Oriente, il volto gentile di un calcio globale sempre più affamato di narrazioni esotiche. Un peso tremendo, portato con quella leggerezza apparente che è spesso solo una forma di coraggio silenzioso. 

Ecco perché questa vittoria non è solo un titolo. È un passaggio rituale, un gesto simbolico. Come se il karma, dopo anni di accumulo silenzioso, avesse deciso di restituirgli qualcosa. E il fatto che sia arrivata non con un gol decisivo, ma con una prestazione totale, da capitano generoso e guida silenziosa, è forse il finale più coerente possibile per un uomo che ha sempre evitato il centro della scena

📷 bbc.com Son alla premiazione voceliberaweb.it 📷

“Leggenda” è una parola che in Corea si sussurra, non si grida. È riservata ai maestri, agli spiriti antichi, ai nomi che si pronunciano con rispetto, quasi con timore. Son Heung-min ha sempre evitato quel termine come si evitano le scarpe troppo grandi. Ma ora che finalmente l’ha pronunciato, lo ha fatto a modo suo: con un sorriso stanco, lo sguardo basso, come chi sa che il tempo — e non la stampa, non i trofei, non i like — gli ha dato ragione. 

E allora la domanda non è: “Son è una leggenda?” La domanda vera è: “Quale leggenda scegliamo di raccontare?” 

Quella del talento precoce esploso in club superpotenti, circondato da stelle e vittorie scontate? O quella di un ragazzo di Chuncheon che, armato solo di disciplina e coerenza, ha impiegato una vita per guadagnarsi il diritto di essere celebrato — e che, proprio per questo, merita ogni sillaba di quell’appellativo? 

Son Heung-min non è la meteora. È la costellazione che appare solo quando il cielo è finalmente buio a sufficienza. 

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