“Soft Power Big 5”: l’ambizione culturale e commerciale del nuovo corso sudcoreano
La Corea del Sud punta su K-pop, K-drama, cinema e webtoon per crescere economicamente. Scopri il piano “Soft Power Big 5” del presidente Lee Jae-myung.

Nel cuore di Seoul, dove i grattacieli sfiorano le nuvole e le vetrine degli idol brillano come fari, si respira un’aria nuova. L’elezione di Lee Jae-myung non ha solo riacceso le speranza di una diplomazia più distesa verso il Nord, ma ha anche acceso i riflettori su una strategia nazionale che affonda le radici nella cultura pop.
Il progetto, chiamato “Soft Power Big 5“ e promosso proprio dal nuovo leader, è destinato a segnare inevitabilmente l’identità della Corea del Sud nei prossimi anni.
Il piano è chiaro: trasformare la Hallyu in una leva strutturale dell’economia. E per farlo, il Governo Lee ha individuato cinque assi strategici: musica, k-drama, cinema, videogiochi e webtoon. Tutti settori senz’altro floridi, ma ora destinatari di investimenti mirati, politiche fiscali agevolate e sostegno all’export.
Un messaggio inequivocabile: la cultura non è solo estetica o orgoglio nazionale, ma industria a pieno titolo. Nel 2023, secondo il Ministero della Cultura, l’export culturale ha generato oltre 13 miliardi di won. Una cifra che supera quella dell’export automobilistico in alcuni mesi dell’anno. Per Lee, però, l’obiettivo sarebbe quello di raddoppiare entro il 2030.
Soft Power Big 5 non è un semplice piano economico, ma un vero e proprio manifesto identitario. Lee Jae-myung, figlio di operai, outsider rispetto alle élite accademiche che hanno dominato la politica sudcoreana per decenni, ha sempre mostrato un’attenzione speciale verso le classi creative e la cultura popolare. La sua visione si fonda sull’idea che il soft power possa rafforzare il prestigio del Paese nel mondo, influenzare le relazioni internazionali e, non per ultimo, attrarre investimenti.
Ma la promozione culturale ha anche risvolti meno scintillanti. Alcuni critici sottolineano che l’enfasi sul soft power rischia di rafforzare un’immagine stereotipata del Paese, limitata al K-pop e ai K-drama. Altri, tra cui importanti accademici sudcoreani, temono che un’eccessiva istituzionalizzazione della Hallyu possa intaccare la sua autenticità. Se tutto è strategia, cosa resta della spontaneità che ha fatto innamorare il pubblico globale?
C’è poi la questione della disuguaglianza interna: mentre BTS e Netflix diventano ambasciatori planetari, gli artisti emergenti lottano ancora per visibilità e tutele contrattuali. La promessa di Lee di “dare dignità economica ai lavoratori culturali” è un segnale importante, ma dovrà tradursi in riforme concrete. Al momento, il sindacato degli artisti dello spettacolo resta scettico.
Tra le novità del programma c’è anche l’espansione dell’insegnamento del coreano all’estero, con la creazione di nuove “King Sejong Institutes” in 20 Paesi. Un’iniziativa che ricorda i modelli del British Council o dell’Instituto Cervantes, con l’ambizione di legare la diffusione linguistica alla crescita del mercato culturale.
Non mancano infine misure per portare più cultura anche all’interno: il governo ha promesso di aumentare del 35% i fondi destinati alle biblioteche pubbliche, agli spazi espositivi nelle aree rurali e ai progetti scolastici di educazione artistica.
La vera sfida, ora, sarà mantenere l’equilibrio tra strategia economica e genuinità espressiva. La Corea del Sud è oggi un laboratorio globale di creatività, ma rischia di diventare una fabbrica culturale a ciclo continuo se non protegge la varietà, la sperimentazione, il margine d’errore artistico.
Lee Jae-myung ha lanciato il dado: vuole una Corea che sia pop, potente e produttiva. Ma tra i riflettori dei palchi e le pagine digitali dei webtoon, dovrà anche garantire libertà, pluralismo e diritti a chi fa cultura ogni giorno. Perché il soft power, alla fine, è fatto di persone prima ancora che di numeri.