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Hwang Hee-chan, l’anatomia dell’urlo trattenuto

C’è una linea sottile tra l’impeto e l’eccesso, tra la furia e la fragilità. È la stessa linea su cui cammina Hwang Hee-chan, soprannominato Hwangso, il toro, da chi ne ha osservato lo scatto felino e la corsa che pare sempre un atto di guerra. Ma cosa accade quando il toro smette di caricare? 👇

📸 transfermarkt.it Hwang Hee-chan, 29 anni, attaccante del Wolverhampton voceliberaweb.it 📸

Ci sono calciatori che sembrano nati per disegnare traiettorie, per sfiorare il pallone come si sfiora un piano inclinato, trasformando il gioco in un atto di levitazione. Poi ci sono quelli che non domandano permesso. Che non entrano nella partita, ma irrompono. Hwang Hee-chan appartiene inevitabilmente a questa seconda categoria. Il suo è un calcio di attrito, non di armonia. Un calcio in cui il rumore non è quello dello stadio, ma quello — opaco, interiore — del corpo che si contrae come un arco teso fino al punto di rottura.

Se ci si ferma a guardarlo in azione, si coglie subito che c’è qualcosa di fisicamente inesorabile in lui. Non è estetica, è impatto. I suoi movimenti sono un gesto atletico senza orpelli, più vicino a una detonazione controllata che a una danza. E non accarezza neanche il pallone: anzi, lo rincorre, lo aggredisce, lo trasforma in leva. Laddove altri usano l’eleganza per eludere, lui forza la realtà.

Lo chiamano il Toro, ma la metafora zootecnica è riduttiva. Hwang non è solo irruenza: è anche ritmo interno, strategia dell’istinto. Un ossimoro in continua tensione tra furia e controllo. Verticale come un pensiero ostinato, diretto come una frase senza subordinata. Il suo talento non scintilla: sfregia, che è molto diverso.

Eppure, il 2025 l’ha colto nell’istante sospeso tra l’incedere e l’incertezza. Undici presenze, nessun gol. Un infortunio muscolare, e poi la sensazione che qualcosa — sotto la pelle, nei pensieri, nel respiro — si sia temporaneamente spento. E con esso anche quella fame che nel 2023 lo aveva reso una furia lucida: 13 gol in 31 partite con il Wolverhampton, sempre all’arrembaggio, sempre con gli occhi accesi come chi corre contro il tempo.

Ora il tempo gli chiede il conto: ventinove anni, nel calcio, non sono più pochi. È, quindi, solo un calo fisiologico, un’ombra passeggera? O è l’inizio di una fase più ambigua, in cui il corpo smette di rispondere con cieca prontezza, e bisogna iniziare a trattare con lui, come si fa con un animale stanco ma ancora feroce?

Nel calcio moderno, dominato da metriche e predizioni, Hwang è un’anomalia preziosa. È ancora tutto carne, impulso, errore. È ciò che sfugge agli analytics, ciò che vive nel margine d’imprevedibilità che nessun algoritmo può mappare. E proprio per questo, per quella promessa di caos controllato, il Wolverhampton ha deciso di crederci ancora due anni fa, blindandolo fino al 2028. Non per quello che è, ma per quello che potrebbe improvvisamente, irrazionalmente tornare a essere.

Ma la domanda che pulsa sotto ogni sua corsa è scomoda e inevitabile: quanto può resistere un giocatore il cui stile è la frenesia? Quanto può durare un’esistenza sportiva fondata sull’esplosione? Il corpo non è eterno. La velocità si logora. La potenza esige sacrifici. A un certo punto, anche i più aggressivi devono imparare l’arte della sottrazione. Hwang può diventare altro? Può trasformare l’urlo trattenuto in sussurro misurato? Può imparare a fendere il campo senza doverlo squarciare ogni volta?

Intorno a lui, le voci si moltiplicano. Il Marsiglia osserva, propone, tenta. Ma il Wolverhampton tiene. Non per sentimentalismo, ma per fede nella possibilità che un giocatore così raro possa ancora deviare la traiettoria della propria storia. Perché Hwang, nella sua cruda essenzialità, è qualcosa di più di un profilo tecnico: è un simbolo. È il retaggio di un calcio che ancora conosce la forza dell’impulso, dell’urgenza, del gesto che nasce prima del pensiero.

Ed è proprio ora, quando tutto sembra più opaco, che può scrivere la pagina più vera della sua carriera. Perché non c’è niente di più potente dell’istante in cui un atleta, privato del suo slancio, impara a cercare una nuova via. Un altro modo per arrivare. Un’altra versione di sé stesso.

Se Hwang riuscirà a riscrivere la sua corsa, allora quella che oggi sembra una crisi sarà ricordata come una transizione. E il suo urlo, finora trattenuto, troverà finalmente voce. Non più solo fragore, ma profondità. Non più sfondamento, ma risonanza.

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