Gwarosa, quando il lavoro uccide e nessuno se ne accorge
In Corea del Sud il lavoro è un altare e la produttività un dio esigente. Ma cosa succede davvero quando mente e corpo si spezzano? Un viaggio tra il culto dell’efficienza e il tragico fenomeno del gwarosa, la morte per il troppo lavoro.

Ti vedranno stanco e ti diranno: “lavora ancora”.
C’è un’ora strana, in Corea del Sud, in cui le luci degli uffici restano accese anche oltre i classici orari di lavoro. Non è romanticismo, verosimilmente neppure amore per la professione che si svolge. È resistenza. Resistenza alla stanchezza, alla solitudine, al giudizio. Perché uscire prima del capo è maleducazione, riposarsi è una colpa. La produttività, qui, altro non è che un vero e proprio culto.
In questo triste, quanto duro, scenario nasce il gwarosa (과로사). Il termine, oggi usato comunemente in Corea del Sud, deriva dal concetto giapponese di karoshi, nato negli anni ‘70 dopo il boom economico del Sol Levante. Karoshi significa letteralmente “morte da superlavoro” e fu coniato per descrivere un fenomeno allora inedito: impiegati sani, spesso giovani, che morivano improvvisamente per infarto o ictus dopo maratone lavorative estenuanti.
Le aggravanti, negli ultimi anni, sono diventate anche malnutrizione e addirittura digiuno. Ma prima è tempo di un bilancio, di fornire dei dati, estenuanti, crudi, perché non si può passare oltre.
La Corea del Sud è tra i paesi OCSE con il più alto numero di ore lavorative annue pro capite. Nel 2024, la media era di circa 1.900 ore l’anno, ben sopra la media europea. Il 26% dei lavoratori lavora più di 52 ore settimanali, che è il limite legale. Il 40%, invece, riporta sintomi da burnout entro i primi cinque anni di lavoro. Infine, il 70% degli stagisti o entry-level afferma di non potersi concedere un giorno di malattia.
E quando il corpo cede, in questi contesti, la colpa è sempre individuale. Nessuno osa dire che il sistema è malato. Nessuno parla degli ingranaggi che non funzionano.

Ancora una volta, ci troviamo di fronte al culto dell’iper-efficienza coreana, ai valori profondamente radicati di una cultura che equipara il valore umano alla produttività. Fin dai banchi di scuola, i bambini coreani imparano che una persona vale quanto rende. Discriminante, sì, per chi magari ha ritmi diversi, per chi ha bisogni speciali, per chi fatica a tenere il passo. Ma è così.
Si dorme 4 ore per notte, si studia negli hagwon fino alle 23, quindi scuola dopo la scuola. E l’università? Lì è peggio: si entra esausti e si esce con un debito emotivo.
E quindi, cosa significa davvero essere efficienti in Corea? Non sbagliare mai, non rallentare mai, non lamentarsi mai.
E se ci si ferma? In quel caso, c’è un termine popolare coreano per chi si permette di fare una pausa: paeng, la cui traduzione italiana più gentile sarebbe “scansafatiche”. Nel lessico aziendale, invece, chi rifiuta gli straordinari viene chiamato outlier, elemento deviante.
E così si lavora anche quando si ha la febbre, con il lutto addosso, senza vivere davvero come esseri umani ma solo funzionando. Come le macchine.

I morti che non fanno notizia, però, sono tanti. Nel 2023, un dipendente ventottenne della Samsung morì dopo 120 ore di straordinari in un mese. Un anno prima, invece, nel 2022, una giovane stagista fu ritrovata in casa dopo tre giorni, senza vita. Nessuno l’aveva cercata, in realtà. La sua unica colpa? Essere una stagista, quindi di livello inferiore rispetto agli altri impiegati.
In questi casi, le famiglie spesso non parlano, per vergogna, soprattutto nei casi in cui le vittime erano dipendenti di aziende rinomate. La società, dal canto suo, non indaga, verosimilmente per convenienza. Gli uffici di reclutamento, però, continuano a predicare resilienza. La parola “diritti” non uscirà mai dalla loro bocca.
Nei k-drama, anche quelli più romantici, si raccontano impiegati che vivono in ufficio, dormono in una sedia, mangiano noodles scadenti. Realismo, certo, ma anche normalizzazione. Perché? Perché in questi contesti, il successo viene sempre dopo l’umiliazione, dopo l’auto-sacrificio.
Ad aver capovolto il mito, nel 2014, almeno in minima parte, è stato il k-drama Misaeng, dove il protagonista affronta la disumanità del mondo aziendale senza mai diventare “uno di loro”.

Ma qualcuno che in realtà sta cercando di rompere il ciclo c’è, ed è la generazione Z coreana, la quale comincia a dire basta. Cresce il numero di chi sceglie il part-time volontario, chi lascia Seoul per i villaggi, e chi rifiuta il full time per non rischiare di perdere la salute mentale.
Nascono movimenti come il YOLO-coreano, che tende a valorizzare il concetto di “vivere la vita” tra viaggi lenti, lavori freelance e, eventualmente, uno stile di vita meno competitivo.
Gli scenari futuri? Ancora incerti, però la Corea del Sud ha introdotto riforme sul lavoro, riducendo il tetto massimo settimanale da 68 a 52 ore. I controlli, tuttavia, sono rari e le sanzioni molto blande. Il vero cambiamento, a conti fatti, non richiede leggi ma una vera e propria rivoluzione culturale.